Mente estesa ed ecologia dell'essere
Il nostro pianeta è un luogo di squisita bellezza, fatto materialmente con il respiro, il sangue, e le ossa dei nostri avi. Dobbiamo riprendere la nostra antica percezione della Terra come organismo, e tornare a rispettarla.
James Lovelock, Omaggio a Gaia.
La coscienza è qualcosa che noi facciamo, è definita dal nostro interagire con il mondo che ci circonda e dipende solo in parte dal sistema nervoso. Noi non siamo interamente nel nostro cervello ma siamo individuati dalla relazione che si instaura fra il nostro cervello, il nostro corpo e l’ambiente in cui siamo immersi. La nostra mente non è nascosta dentro il nostro corpo ma emerge dalla dinamica con cui ci relazioniamo col mondo. In questi termini parliamo di mente estesa identificando la mente con la vita stessa, con il sistema che tiene accesa la fiamma dell’autocoscienza universale. “In tale realtà nessun uomo è un isola e le modalità sensoriali sono veri e propri stili di esplorazione del mondo, che si differenziano l’uno dall’altro nello stesso modo in cui si differenziano gli stili dei musicisti”(1)
Nell’ottica di una mente estesa c’è da chiedersi se esistono modi di comunicazione con il mondo che integrino i dati sensoriali, quelli emozionali, e quelli sociali atti a formare un ente unico che possa svilupparsi secondo principi di armonia fra le parti e il tutto.
Un ruolo fondamentale è giocato dal simbolo inteso come legame e chiave di lettura del reale che si attua attraverso continui rimandi e spostamenti di significato
La presa sulla realtà attuata mediante una profonda immersione sensoriale e un coinvolgimento emozionale può salvare l’uomo dall’alienazione da una cospicua parte del proprio corpo rappresentata dall’ambiente in cui si vive. Tale legame ci assicura la possibilità di pervenire ad una nuova ecologia, un ecologia profonda che scaturisce dalla nostra attenzione verso il nostro corpo allargato costituito dal nostro corpo fisico e dall’ambiente in cui siamo immersi.
Concepire l’ambiente come parte di noi, assumere un rapporto di complicità con il nostro intorno rappresentato dal mondo implica un superamento della logica dicotomica che separandoci illusoriamente dal resto delle cose ci spinge alla volontà di possedere, ci identifica nella capacità dell’avere come modalità dell’essere
Si percepisce attraverso un azione del corpo, un corpo animato è un corpo partecipe allo spazio e alle cose. Secondo un approccio enattivo o esternalista alla percezione, l’esperienza è prodotta dall’integrazione fra percezione e azione, secondo tale ottica il percepire è un atto creativo che genera la realtà, la vita stessa consiste in continuo sforzo per rendere il mondo reale; attraverso la manipolazione e la rappresentazione della realtà creiamo mondi immaginari che indirizziamo verso una loro fattibilità nel reale, in una possibilità di esistenza, micro mondi di coerenza che come bolle di sapone si fondono o esplodono incontrandosi. Alla base della creazione vi è allora un continuo mutamento che, come la danza cosmica di Shiva crea e distrugge mondi e tempi.(2)
Considerare la percezione come atto creativo significa porsi all’interno dell’organizzazione del mondo non solo come parte in continuità fisica ma soprattutto come artefici di realtà: siamo parte del paesaggio, dell’ambiente e attraverso la percezione lo trasformiamo.
“Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita e, quale bava del grande Ragno, ci unisce in modo sottile a ciò che è prossimo, imprigionandoci in un letto lieve di morte lenta dove dondoliamo al vento. Tutto è noi e noi siamo tutto; ma a che serve questo, se tutto è niente? Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un’improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle.” F.Pessoa , Il libro dell’inquietudine , Feltrinelli, Milano 2004, p. 35
Il paesaggio può essere definito come una porzione del mondo reale delimitata spazialmente sulla base di processi e organismi: ne deriva che esistono tanti paesaggi quanti sono i processi e gli organismi. Il paesaggio viene perciò inteso come uno spazio geografico in cui la complessità ecologica è espressa in vario modo attraverso organismi concorrenti che, nelle loro funzioni, si sovrappongono e interagiscono in vario modo attraverso meccanismi di feedback. Ne consegue che
la dimensione di un paesaggio non è solo quella a misura d’uomo ma può essere anche microscopica se ci riferiamo a organismi come virus e batteri, o ridotta a pochi metri se ci riferiamo a piccoli organismi. Concepire il paesaggio come un organismo vivente che si auto organizza
comporta una descrizione sistemica delle sue caratteristiche intrinseche, come la teoria sistemica applicata al paesaggio rappresenta una svolta contro il meccanicismo cartesiano e in favore di una concezione unitaria del sistema uomo–natura.
La scienza sistemica sostiene che i sistemi viventi non possono essere analizzati nei termini delle proprietà delle loro parti. Le proprietà essenziali di un organismo appartengono al tutto e non alle singole parti: ne consegue che tali proprietà mutano quando il sistema viene diviso in elementi isolati. Caratteristica primaria dei sistemi aperti è il flusso di materia ed energia con cui si auto organizzano. Tutti i sistemi complessi sono aperti, ovvero scambiano materia, energia e informazioni con l’esterno. Il concetto di autorganizzazione è fondato su un anello di retroazione,
ossia una disposizione circolare di elementi connessi in cui una causa iniziale si propaga lungo le connessioni dell’anello, in modo tale che ogni elemento agisce sul successivo finché l’ultimo trasmette di nuovo l’effetto al primo elemento del ciclo. La conseguenza di questa
disposizione è che la prima connessione (input) subisce l’effetto dell’ultima (output), il che dà come risultato l’autoregolazione dell’intero sistema in modo che ogni componente di un sistema partecipa
alla produzione o alla trasformazione di altre componenti del sistema stesso. Una caratteristica importante degli anelli di retroazione consiste nel fatto che essi collegano sistemi viventi e non viventi, per cui non possiamo più pensare alle cose, agli animali e alle piante come entità separate, ma come componenti di una stessa struttura.(3)
Il simbolo è il legame fra noi e il mondo, l’anello di congiunzione dove la percezione del dato bruto diventa emozione e il significato delle cose si rivela nel suo grado più puro e universale.
Nel suo significato etimologico, simbolo (sum ba¢llein = unire) è un ponte che unisce due mondi. Il suo contrario è diavolo (dia ba¢llein = dividere). Il simbolismo scientifico rappresenta il substrato ed il linguaggio dove delle intuizioni vengono formalizzate ed analogamente avviene per quanto concerne la trasformazione e la rappresentazione del nostro ambiente. Alla base di ogni processo creativo, sia esso nel campo scientifico che in quello artistico, vi è l'intuizione che attraverso un apparato simbolico viene riportata al mondo e resa fruibile. La scienza, oltre ad essere "cultura del fare" è soprattutto generatrice di "visioni del mondo" che sono molto importanti per il nostro modo di relazionarci alla realtà stessa. Concepire il simbolo come punto di unione fra ambiti diversi del sapere significa ridefinire i nostri rapporti con il mondo stesso, anzi con mondi che hanno i loro significati abbastanza ben definiti e come delle bolle di sapone possono entrare in collisione compenetrandosi e dando vita ad intermondi che possono fornire ulteriori significati. Lo spazio organizzato dell'antichità è stato espressione simbolica dell'ordine del mondo; la correlazione al cosmo mediante l'imitazione, ad esempio, è una caratteristica non esclusiva degli edifici ma anche degli agglomerati urbani. La valenza simbolica degli artefatti dell’uomo è data in relazione a modelli del mondo definiti secondo teorie sulla natura dell'universo, quindi lo spazio organizzato ha in tal modo una funzione di ponte fra la percezione sensibile e quella sovra-sensibile. La forma costruita delimitata secondo rapporti dimensionali e definiti si contrappone alle forme naturali, quindi diventa misura della natura stessa. Nell'antichità lo spazio organizzato atto ad ospitare la vita, contrapponeva l'ordine al caos e gli astri stessi erano dei simboli che rappresentavano l'eternità nel loro movimento ciclico attorno ad un punto fisso. La volta celeste quindi delimitava lo spazio e il movimento degli astri ne misurava il tempo. Il simbolo è una rappresentazione schematica di un'insieme di idee, quindi ogni simbolo era parte di una trama di interrelazioni. Un artefatto è un simbolo in senso metafisico quando il suo aspetto fisico e la sua forma sensibile sono similitudini di paradigmi metafisici che derivano da principi che stanno oltre la capacità dei sensi. L'atto della creazione di un concetto procede di pari passo con l'atto del fissarsi in qualche simbolo. Ma come entrano in contatto il linguaggio simbolico della scienza e dell'arte e come possono influenzarsi? La risposta è forse banale: abbiamo bisogno di ritrovare un'unità perduta fra noi e la natura, fra noi ed il creato. Galimberti nel suo libro "La terra senza male" parla di nostalgia di un cosmo separato dal Logos dove però c'è stato un tempo in cui l'essere umano si sentiva intimamente connesso con l'universo mentre oggi "l'uomo non è più di casa sulla terra". C'è da chiedersi in tal senso come possono le teorie scientifiche avere un ruolo nella nostra "ripresa" dell'ambiente e del mondo in generale.
La produzione e la tecnologia durante tutto il Novecento, è stata caratterizzata da una separazione drastica fra uomo ed ambiente dove prevale la fruizione funzionale ed utilitaristica dello spazio costruito rendendo l'ambiente metafora di una macchina. Questa visione della realtà ha portato alla creazione di manufatti e agglomerati urbani senza alcun legame con il "mondo esterno", il contesto naturale è scomparso per dare spazio all'artificio. Nell'antichità scienza, arte e religione erano in stretta relazione, mentre l'arte e l'architettura del XX secolo hanno generato un simbolismo che deve molto alla scienza, come ad esempio una nuova visione dello spazio dovuta alla teoria della relatività. Nel cubismo, ad esempio, l'apparato simbolico rende visibile quasi in modo didascalico la portata della teoria della relatività che con altri sistemi descrittivi non potrebbe essere agevolmente interiorizzata.
Il simbolismo contemporaneo che lega scienza e mondo sensibile può essere rappresentato dal concetto di rete assimilabile ad una connessione infinita di cause.
La fisica quantistica, invece, non ha avuto fino ora influenza nei modi di fruizione dello spazio con la sua visione di una interconnessione profonda. Sappiamo che l'osservatore non può essere separato dal mondo osservato e quindi misurato, per cui ne consegue che non siamo separati dal nostro ambiente ma la nostra interazione con esso contribuisce a definirlo e a cambiarlo e osservando la realtà secondo un rapporto soggetto-oggetto ne privilegiamo delle parti a scapito di altre per poterle comprendere e ciò comporta una progettazione del territorio disorganica.
Bisogna concepire l'ambiente come un organismo in trasformazione, ma come trasferire i concetti di interdipendenza fra uomo e ambiente, fra osservatore ed osservato nella percezione e organizzazione dello spazio? La concezione sistemica della vita conduce ad una concezione di ecologia profonda che non separa gli esseri umani dall'ambiente naturale (come dice Fritjof Capra nel suo "La scienza della vita") e non separa gli uomini fra di loro. Per "riconquistare" la nostra umanità occorre ri-connettersi con la "trama della vita" distaccandosi dall'antropocentrismo.
Claudio Catalano
Note
(1) Alva Noe Perché non siamo il nostro cervello – cortina ed. p.66
(2) Claudio Catalano, “spazi emozionali” aracne ed. 2011 p. 87 e seguenti
(3) Claudio catalano, “architettura scienza e percezione p. 40 e seg.